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Pubblicato inTerza età

Alzheimer: tante cure utili in attesa di quella risolutiva

La malattia di Alzheimer (AD) è la causa più comune di demenza e una delle principali fonti di morbilità e mortalità nella popolazione anziana, ma la cura definitiva sembra essere ancora lontana. Vi spieghiamo, con l’aiuto del nostro neurologo, a che punto è la ricerca

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Gli esordi dell’Alzheimer sono spesso silenti, mentre quando i sintomi si fanno evidenti il danno a carico del tessuto cerebrale è già rilevante. Ancora non è noto cosa la provochi, però si sa che i cambiamenti caratteristici della malattia sono dovuti alla deposizione extracellulare della proteina beta amiloide sotto forma di placche proteiche e alla formazione all’interno delle cellule di grovigli neurofibrillari di proteina tau (p-tau) iperfosforilata.

La ricerca di farmaci capaci di contrastare la formazione delle placche ha incontrato molte difficoltà; attualmente si attende l’approvazione USA, cui normalmente segue quella europea, di un anticorpo monoclonale antiamiloide (aducanumab), prodotto dalla casa farmaceutica Biogen. Non è ancora il farmaco ideale però, capace di attraversare efficacemente la barriera ematoencefalica (che separa il cervello dalla circolazione) e di mantenere nel tempo la dose che contrasta la tossicità della beta amiloide.

Trattamenti non farmacologici

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La carenza di farmaci ha lasciato ampio spazio allo sviluppo di discipline di supporto che sono utili nella gestione dei disturbi cognitivi e comportamentali. Il trattamento di allucinazioni, depressione, agitazione, aggressività e disturbi del sonno è, infatti, molto rilevante nella quotidianità dei pazienti con demenza e delle loro famiglie. Tra le diverse opzioni alle quali ricorrere, qui di seguito vi illustriamo quelle con maggiori riscontri nel miglioramento della  qualità di vita

Nutrizione – Lo scarso appetito nei soggetti con AD è dovuto anche ad una riduzione del senso dell’olfatto, ne conseguono un’alimentazione inadeguata e una perdita di peso che aumentano morbilità e mortalità. Per aggirare questi dinamiche è utile ricorrere ad integratori alimentari ipercalorici, e ricette con un maggior contenuto di aromi o spezie (pepe nero, paprika, peperoncino, zenzero, senape, ravanelli o rafano). È dimostrato che questi interventi possono favorire l’aumento di peso nei pazienti con demenza.

Riabilitazione cognitiva  –  La riabilitazione cognitiva mira ad aiutare i pazienti nelle prime fasi di malattia a mantenere la memoria ed escogitare strategie per compensare il declino delle funzioni cognitive. Gli studi sull’efficacia di questo approccio sono limitati dalla mancanza di tecniche standardizzate, inoltre occorre dimostrare che i miglioramenti si estendono anche a compiti della vita quotidiana e nn solo alle funzioni cognitive, così che questi interventi possano essere approvati e inseriti nei percorsi di assistenza.

Psicomotricità  –  L’attività fisica può migliorare il funzionamento fisico o almeno rallentare la progressione del declino funzionale e dei disturbi comportamentali nei pazienti con AD; non ha invece alcun effetto sulla componente cognitiva.

Terapia occupazionale  –  Questo approccio è volto ad aiutare le persone con AD e i loro caregiver ad adattare l’ambiente circostante, concentrandosi su ciò che possono fare per massimizzare l’impegno nell’attività (occupazione), promuovere la sicurezza e migliorare la qualità della vita. Durante sessioni di terapia personalizzate pazienti e caregivers vengono addestrati nell’uso di ausili, comportamenti di coping (adattamento e rielaborazione) e altre strategie per compensare quei deficit funzionali che sono specificamente problematici per il paziente.

Inoltre viene fornito supporto per le attività della vita quotidiana, come: cura e igiene personale, preparazione del cibo, gestione delle finanza e trasporti. Numerosi studi hanno dimostrato che questa terapia è efficace sulla funzionalità globale del paziente e riduce i costi di gestione se protratta per almeno sei settimane.

Musicoterapia – La musicoterapia è un promettente approccio: si basa sull’uso di strumenti musicali, attività di ascolto, canto e danza, per migliorare la comunicazione tra musicoterapista e pazienti. Negli ultimi anni è utilizzata con frequenza crescente, soprattutto per il trattamento dell’agitazione e dell’aggressività. È molto probabile che la musicoterapia aumenti nei pazienti la soglia di tolleranza a stimoli ambientali che di solito innescano comportamenti “distruttivi”.

Reality Orientation Therapy (ROT) – La terapia dell’orientamento alla realtà è adatta ai pazienti affetti da deficit mnesici, episodi di confusione e disorientamento spazio-temporale. Il suo obiettivo principale è quello di riorientare il paziente, attraverso ripetuti stimoli multimodali, rispetto alla sua storia personale, al suo ambiente e al tempo presente.

La ROT si applica singolarmente o ad un piccolo gruppo di pazienti (4-6 soggetti), che sono omogenei in termini di deficit cognitivo, che si incontrano con i terapisti per circa 45 minuti al giorno in un ambiente ben strutturato. Attualmente la ROT è uno degli interventi riabilitativi più utilizzati per pazienti affetti da demenza, ed è uno dei pochi interventi che hanno ottenuto risultati positivi nei pazienti affetti da Alzheimer.

Pet therapy – Spesso, nei soggetti affetti da demenza si osservano una combinazione di disturbi cognitivi e dell’umore, motivo per cui sono utili terapie basate sulla stimolazione affettiva, motivazionale, emotiva. Un ottimo esempio in questo senso consiste nella terapia con assistenza animale perchè la presenza di un “animale da terapia” agisce da stimolo affettivo ed emotivo sui pazienti e ne migliora l’umore.

Quando i pazienti sviluppano un forte legame con un animale, poi, risulta più facile la somministrazione di farmaci e degli altri trattamenti non farmacologici. Secondo la letteratura scientifica il cane, essendo in grado di capire il linguaggio non verbale, sarebbe il più adatto a funzionare come cassa di risonanza emotiva del paziente. La pet therapy potrebbe favorire la non medicalizzazione del sintomo psicologico, attraverso un gioco strutturato con il cane.

 Il successo italiano

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È di poche settimane fa la scoperta dell’anticorpo A13 che contrasta l’AD in fase precoce favorendo lo sviluppo di nuovi neuroni.

Si tratta di un successo italiano che ha catalizzato l’attenzione della comunità Scientifica internazionale, tuttavia è ancora lontano dall’interessare i malati e le loro famiglie. Gli studi dei ricercatori della Fondazione Ebri “Rita Levi-Montalcini” infatti sono stati eseguiti su cavie di laboratorio, come ogni ricerca in fase iniziale. La risonanza mediatica nasce dal fatto che i risultati sono stati davvero positivi: nelle cavie l’anticorpo ha come ringiovanito il cervello bloccando l’Alzheimer.

Il Gene protettore

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Un gruppo guidato da ricercatori della Harvard Medical School e dell’Università di Antioquia (Medellín, Colombia) ha studiato un caso unico in cui una donna, predisposta geneticamente alla malattia di Alzheimer ad esordio precoce, presentava sintomi 30 anni dopo il previsto.

La donna fa parte di una famiglia colombiana (che conta oltre 6000 membri viventi) portatrice di una rara mutazione nel gene della preselinina 1 (PSEN1 E280A). Questa specifica mutazione genetica porta ad una probabilità del 99,9% di sviluppare la malattia di Alzheimer autosomica dominante ad esordio precoce, intorno ai 40 anni di età. Tuttavia, la donna dello studio ha iniziato a manifestare sintomi solamente a 70 anni.

I ricercatori hanno scoperto che la donna aveva anche due copie mutate di un altro gene, l’APOE3 Christchurch (APOE3ch). Il fatto che nessun altro membro della famiglia fosse portatore di due copie di questa variante genetica fa supporre un ruolo protettivo di tale mutazione nel gene APOE3. Questa ricerca  può rivelare nuove informazioni sul ruolo patogenetico dell’apoliproteina E, utili per lo sviluppo di nuovi trattamenti.

Il farmaco cinese estratto da un’alga

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In Cina hanno approfondito l’associazione tra disbiosi intestinale e progressione della malattia di Alzheimer, tramite l’attivazione di una cascata neuroinfiammatoria. Va in questa direzione il recente studio clinico di fase 3 in cui è stato testato con buoni risultati il farmaco GV-971, prodotto da un’alga bruna, che agisce proprio regolando il microbiota intestinale. Sarebbe modestamente efficace e solo nelle fasi iniziali, poi la malattia progredisce, ma è comunque un filone di ricerca aperto.