Lo scorso dicembre l’Udinese Calcio ha lanciato con una conferenza stampa una campagna sostegno del vaccino antinfluenzale (di cui abbiamo già ampiamente parlato in questo articolo che vi invitiamo a leggere) rivolto a tutti: dai soggetti a rischio fino ai propri giocatori e lo staff. A proposito, il dott. Aldo Baselli, responsabile medico dell’Udinese, ha precisato: «L’Udinese Calcio non obbliga nessuno a vaccinare, ma noi vacciniamo sempre i nostri atleti per prevenire virus nello spogliatoio. […] Loro sono dei professionisti e devono prevenire patologie che possono danneggiare la squadra. Inoltre molti di loro hanno bambini piccoli a casa, bimbi che possono portare facilmente l’influenza».
Spesso infatti nel momento in cui si è di fronte alla necessità di somministrare un vaccino si pensa solo a breve termine, al fatto che il vaccino metta a rischio l’attività degli atleti per qualche giorno a causa dei suoi potenziali effetti collaterali (che nel caso del vaccino antinfluenzale si traducono semplicemente in lieve gonfiore e dolore della parte interessata, febbricola o malessere generale per 24-48 ore). In realtà ciò che accade è esattamente l’opposto: i sintomi veri e propri possono continuare anche diversi giorni dopo il contagio, e prolungarsi anche nelle settimane successive, con un impatto ben più rilevante sulla performance degli atleti e su tutta la comunità. Non approfittare di questo strumento significherebbe fare un passo indietro di oltre 100 anni.
Ecco almeno cinque motivazioni che dovrebbero spingere gli sportivi a sottoporsi ai vaccini:
- La fase di open window: si tratta di una fase della vita dell’atleta in cui il suo sistema immunitario non è in grado di garantirgli una risposta adeguata nei confronti dei microrganismi patogeni. Questa fase si ha solitamente a termine di uno sforzo fisico intenso, ad esempio alla fine di una partita, e dura all’incirca 3-72 ore.
- Lo sport di squadra: spesso sono proprio le prime ore a seguito dello sforzo quelle in cui esiste una concreta possibilità di contagio. Pensiamo al vapore delle docce calde post allenamento o gli ambienti stretti degli spogliatoi e degli spazi comuni. Questo rende verosimile un contagio in un’ampia cerchia di persone di virus come quello dell’influenza, della varicella, del morbillo o del meningococco.
- Le trasferte: sia per motivi sportivi che personali, i viaggi internazionali espongono gli atleti a un maggior rischio di esposizione agli agenti infettivi. Questo punto assume particolare rilevo nel caso di atleti stranieri che provengono da paesi extracomunitari e in previsione del loro ritorno nel paese di origine.
- L’impatto sulle performance sportive: l’influenza può causare un calo della performance di un atleta anche per molti giorni, per non parlare di malattie come il morbillo, l’epatite A o la meningite che richiedono un tempo di guarigione ben più lungo, con effetti diretti sulle performance sportive.
- Gli infortuni: eventi non rari tra gli sportivi, che spesso si risolvono senza particolari conseguenze. Anche dietro a piccoli infortuni irrilevanti come graffi e tagli possono nascondersi però dei pericoli: il tetano, causato dalla tossina prodotta da un germe (il Clostridium tetani) le cui spore sono presenti nel terreno,nell’acqua e nella polvere. Lo sportivo può introdurle accidentalmente attraverso ferite o piccole sbucciature della pelle, soprattutto quelle piccole e che sanguinano poco.
Via libera quindi al vaccino, soprattutto l’antinfluenzale e il vaccino MPR (morbillo-parotite-rosolia): come abbiamo visto, infatti, si tratta in entrambi i casi di malattie ad alto rischio di contagio, amplificato dalla condivisione di spazi come spogliatoi e palestre tra gli sportivi. Anche il vaccino contro il tetano (che, ricordiamo, prevede un richiamo ogni 10 anni) è indispensabile per questa categoria, per proteggere dagli effetti infausti di infortuni banali che però ha causato la morte di 20 persone lo scorso anno.